Sentenza n.189 del 1988

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SENTENZA N.189

ANNO 1988

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Francesco SAJA Presidente

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 4, primo comma, della legge 10 luglio 1930, n. 1078 (, promosso con ordinanza emessa il 19 ottobre 1984 dalla Corte di Cassazione sul ricorso proposto dal Comitato dell'Amministrazione separata dei beni civici di Tufo contro l'Amministrazione separata dei beni di uso civico di Leofreni di Pescorocchiano ed altri, iscritta al n. 667 del registro ordinanze 1985 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7/1a ss. dell'anno 1986;

Visti gli atti di costituzione dell'Amministrazione separata dei beni civici di Tufo, dell'Amministrazione separata di beni di uso civico di Leofreni, di Betti Mario e di De Vecchi Franco e Roberto;

udito nell'udienza pubblica del 10 dicembre 1987 il Giudice relatore Mauro Ferri;

uditi gli avvocati Carlo Solari per l'Amministrazione separata dei beni di uso civico di Leofreni e Lucio Moscarini per Betti Mario e De Vecchi Franco e Roberto.

Considerato in diritto

l. - La questione che la Corte é chiamata a decidere concerne l'art. 4, primo comma, della legge 10 luglio 1930 n. 1078 (), il quale, in tema di reclami avverso le decisioni dei commissari regionali per la liquidazione degli usi civici, dispone che il reclamo deve essere notificato - nel termine di trenta giorni dalla data di notificazione della sentenza- .

Come spiegato in narrativa, la Corte di cassazione dubita, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., della legittimità costituzionale della norma citata, la quale, secondo la costante interpretazione giurisprudenziale (che questa Corte non può sindacare), non consente nel giudizio di appello l'integrazione del contraddittorio nei confronti dei soggetti pretermessi-ma già parti nel giudizio di primo grado - dopo la scadenza del termine per proporre il reclamo, ponendosi quale eccezione alla regola generale già contenuta nell'art. 469 del codice di procedura civile abrogato ed ora prevista nell'art. 331 del c.p.c. vigente.

2. - Occorre preliminarmente esaminare l'eccezione di inammissibilità della questione sollevata da una delle parti private costituitesi dinanzi a questa Corte. Si sostiene, in particolare, che la questione sarebbe irrilevante, in quanto la inesistenza, rilevata dalla Corte d'appello, della notificazione del reclamo nei confronti di alcuni litisconsorti renderebbe comunque non più possibile (trattandosi-a differenza della semplice omissione-di vizio insanabile) l'integrazione del contraddittorio nei loro confronti, con la conseguenza che la decisione di questa Corte sarebbe del tutto ininfluente sull'esito del giudizio principale.

L'eccezione non merita accoglimento. Secondo la costante giurisprudenza ordinaria, infatti, nei giudizi con pluralità di parti la inesistenza della notificazione dell'atto di impugnazione nei confronti di alcuna di esse non incide sulla costituzione del rapporto processuale, che deve ritenersi regolarmente formato-sia pure parzialmente-a seguito della notificazione ritualmente eseguita almeno nei confronti di una delle controparti, con conseguente ammissibilità dell'integrazione del contraddittorio.

3. - La questione non é fondata.

Per quanto concerne la denunciata violazione del principio di eguaglianza, il giudice rimettente, nel lamentare la disparità di trattamento tra il giudizio di appello e il giudizio di cassazione (nel quale e possibile, grazie alla diversa formulazione dell'art. 8 della legge n. 1078 del 1930, l'integrazione del contraddittorio), disparità a suo avviso non giustificata dalla diversa natura dei due giudizi di impugnazione, afferma di condividere la costante giurisprudenza che individua la ratio della norma censurata nelle particolari esigenze di interesse pubblico alla speditezza del giudizio, le quali trovano molteplici riscontri nella disciplina processuale della materia.

Tali esigenze, conclude il giudice a quo, se avvertite per il giudizio di appello, altrettanto lo sarebbero dovute essere per quello di cassazione.

Prescindendo dal problema relativo alla asserita eguaglianza delle situazioni poste a raffronto, assume valore decisivo il rilievo che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, una omissione irragionevole del legislatore non può condurre alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di altra norma di per se ragionevole, nel senso che non é censurabile per disparità di trattamento una disposizione che tuteli ragionevolmente certi interessi (ed anche nel caso ora all'esame della Corte e lo stesso giudice rimettente, come sopra evidenziato, a non dubitare di ciò), lamentandosi che interessi di uguale (o maggior) valore non abbiano trovato analoga tutela (cfr. sentt. n. 168 del 1982 e n. 297 del 1986 e ordd. n. 393 e n. 530 del 1987).

4 .-La violazione dell'art. 24 Cost. é espressamente denunciata non per il fatto che la norma in esame deroghi al rito ordinario, ma come conseguenza della lamentata disparità di trattamento, la quale finirebbe con l'incidere negativamente sul diritto di difesa degli appellanti, considerato anche il solitamente elevato numero di parti nei giudizi de quibus.

Va, innanzitutto, ribadito, come ricorda lo stesso giudice rimettente, che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il fatto che una disciplina processuale speciale deroghi al rito ordinario non costituisce elemento di per se sufficiente ad integrare violazione dell'art. 24 Cost., in quanto le norme del procedimento ordinario non possono essere assunte a paradigma assoluto del c.d. (sentt. n. 62 e n. 185 del 1980; ord. n. 582 del 1987).

Ma, a parte ciò, é decisivo rilevare che la censura, così come prospettata, finisce col ricondursi sostanzialmente alla precedente, con la conseguenza che le considerazioni sopra svolte non possono non valere anche per essa.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, primo comma, della legge 10 luglio 1930, n. 1078 (), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., dalla Corte di cassazione con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10/02/88.

Francesco SAJA, PRESIDENTE

Mauro FERRI, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 18 Febbraio 1988.